Da tanto tempo mi occupo molto di pazienti o ex-pazienti oncologici. Posso dire che siano nel mio cuore e nei miei studi terapeutici da quando ero bambina perché nei primi anni delle scuole elementari ero già sicura che mi sarei dedicata a loro. Il cammino evolutivo della mia professione ha spaziato, integrando e mai escludendo approcci che decidevo di approfondire: intanto, mentre andavo avanti, osservavo, ascoltavo, toccavo, intuivo. Niente è stato casuale: quando nel silenzio rivedo gli eventi, le scelte e le svolte capisco che nulla è arrivato senza un motivo, senza un impatto che poi è risultato pienamente logico.
Chi parla di medicina psicosomatica e tumori a volte manca di esperienza. Me ne rendo conto dalle note critiche e dai giudizi sui colleghi “iperscientifici” lasciati andare con facilità eccessiva. E’ come se esistesse una frattura tra fazioni che non hanno il minimo senso.
Per discutere davvero del mondo alieno dei pazienti oncologici bisogna esserci cresciute dentro, e ancora non basta. Il confronto continuo con le singole unicità speciali di ogni persona e ogni malattia e ogni cellula e ogni reazione individuale insegna più di tanti testi che, pure interessanti, estrapolano tenendosi lontano da un quotidiano che può mettere a durissima prova la resistenza psichica dei terapeuti. Trattare trenta pazienti all’anno con una certo genere di problema non è come trattarne duecento: quando la casistica in ambito oncologico è bassa (anche negli approcci psicosomatici) si vede e si sente.
Ho scelto la medicina psicosomatica (e la psicoterapia psicosomatica, quando avrò terminato la scuola di specializzazione a Riza) perché ho capito che la salute e la cura devono includere tutto ciò che siamo e partire dallo spirito ma, come è accaduto per la radioterapia e la chirurgia generale e la medicina olistica, non ho l’intenzione di sposare a priori una fede costruita da altri senza introdurre modifiche e tonalità intermedie che sento veritiere. Dentro di me una voce parla, apprende, guida.
La malattia tumorale ha molto a che fare con una maschera che ci si costruisce e la distonia rispetto a ciò che realmente si è. Questo aspetto andrebbe esplorato ogni volta che si ha a che fare con un paziente affetto da tumore. Alcune domande sono fondamentali: cosa avresti voluto fare, diventare, essere e non hai ancora raggiunto?
A cosa hai rinunciato per ottenere il ruolo, la famiglia, lo status, le relazioni che hai? Quale talento (per usare un termine caro a Raffaele Morelli, che condivido in pieno) non stai tirando fuori? Quale fuoco hai cercato di spegnere pensando che in questo modo avresti vissuto in modo più accettabile e condiviso con la maggioranza? A quali patti sei sceso/a per diventare la Persona (cioè la maschera) che sei oggi?
Certo, esistono tanti altri fattori: i lutti e il modo in cui sono stati affrontati, alcune abitudini di vita, misteriosi intrecci molecolari e genetici, l’ambiente, le radiazioni, la rabbia gestita male… Ma di fatto le risposte dei tre sistemi tra loro integrati (neurologico, endocrino, immunitario) parlano di una sola cosa: la mancata espressione di sé e il tentativo di rifare tutto generando nuovi organi, nuovi tessuti, un nuovo essere umano capace di raggiungere i veri obiettivi che l’interiorità ha sempre indicato, inascoltata.
Ecco perché le cellule tumorali si lanciano in una proliferazione incontrollata: cercano di rifare, come quando da bambini si prendeva tempo nel mezzo di un gioco che stava andando così così e si proponeva di ricominciare tutto da capo.
La Via della Cura quando è presente un tumore non può prescindere da un’esplorazione dell’inconscio, della parte muta e non razionale, e da un insieme di ascolto, silenzi, parole e tecniche non verbali per lasciare affiorare la Verità Interiore dei pazienti. E il corpo risponde: si notano variazioni negli esami e nella risposta alle terapie, si osserva e si percepisce un cambiamento nella condizione clinica e psichica.
Basta essere un po’ attenti, basta lasciare aperte le porte del cuore e della mente senza irrigidirsi perché si ha paura di adottare posizioni considerate “sospette” da questa o quella organizzazione terapeutica o perché in fondo non si ha voglia di un confronto diretto con la propria idea della malattia, della salute, della morte.
Nella persona che ha avuto o ha un tumore lo sguardo deve rivolgersi dentro, evitando di insistere su lunghi e ripetuti racconti di traumi pregressi e potenziando l’apertura alla voce interiore, che ho definito Guaritore Interno e cui potremmo dare un nome: la mia voce terapeutica interna si chiama Myriam, per esempio.
Non preoccupatevi: non ho un delirio e nemmeno un’allucinazione, Myriam è l’archetipo femminile della guaritrice che sento vivere in me e riguarda molto anche voi che state leggendo. Potete chiamarla come vi pare: importa che la sentiate e vi affidiate alla saggezza che vi abita, prima ancora di credere a ciò che altri (anche se titolati) vi dicono.
Quando si affronta la Via della Cura con i pazienti oncologici l’integrazione deve essere massima: le chiacchiere che tirano da una parte o dall’altra devono azzerarsi. Considero seriamente dedito/a alla cura solo chi sa cooperare con altri/e terapeuti/e senza giudicare, senza strafare, senza depotenziare l’efficacia dell’egregora che nasce dall’amore e dalla dedizione. Andare alla ricerca di quegli spazi segreti dei pazienti che non sono stati espressi, delle energie compresse e ammutolite, dai sogni mai inseguiti e delle inclinazioni chiuse a chiave da qualche parte ha la stessa potenza del bisturi, dei farmaci e delle radiazioni.