Qualche anno fa mi è stato chiesto di commentare con un articolo l’idea di un giovane che pubblicò in internet la propria cartella clinica chiedendo il parere a chiunque volesse fornirlo: entrai nei dettagli delle centinaia di risposte e mi chiesi come fosse possibile accettare il caos totale in un frangente medico così delicato. Come avrebbe potuto decidere con serenità quale strada intraprendere il giovane che aveva preso questa bizzarra iniziativa?
Eppure, l’abitudine di fornire un parere, anche se non richiesto, assomiglia tanto a un bisogno fisiologico. Non esiste frangente dell’esistenza che sia lasciato libero da una pletora opinioni, consigli, giudizi: l’idea sarebbe di aiutare, ma nella realtà si contribuisce solo a creare confusione. E con la confusione nasce l’ansia, e con l’ansia la paura e il dolore. Se solo si considerassero le conseguenze delle parole una grande quantità di fiato non andrebbe sprecata, ma soprattutto si diminuirebbe il carico di dolore su chi si trova in una difficoltà.
Concentriamoci sui problemi di salute. Succede che si decida di raccontare di avere questo o quel disturbo, oppure di avere ricevuto una diagnosi di malattia: ci si illude che la condivisione aiuti, invece rischia di aprire le porte al caos. L’atteggiamento più sapiente da parte di chi ascolta sarebbe manifestare la propria partecipazione empatica senza lanciarsi nelle elucubrazioni pseudo-scientifiche o vagamente mediche, nei paragoni con l’esperienza personale e, soprattutto, nelle paure: non accade quasi mai. Perché l’unico fatto vero è che si smania per dire qualcosa, per avere la sensazione di avere agito, e quando si butta lì un consiglio o un parere si sta proteggendo se stesse/i dalla morsa di una paura. Vogliamo, dobbiamo risolvere il problema di chi abbiamo davanti perché ci sta spaventando. Quando dialoghiamo siamo allo specchio: se l’emotività fa capolino stiamo guardando noi stesse/i e reagiamo alle rivelazioni del nostro inconscio.
Trattenere l’impulso prescrittore è una dimostrazione di profonda saggezza. Se un rimedio ha funzionato per noi o per nostro zio non dovrà necessariamente funzionare per chi ci sta descrivendo un disturbo apparentemente simile: dovremmo ricordarlo e tacere, cancellare la tentazione di prescrivere qualcosa che potrebbe generare un danno. Il problema conseguente potrebbe essere fisico o psichico: ignoriamo la sensibilità di chi riceve le nostre parole, potremmo colpire dettagli nascosti delicatissimi e peggiorare la situazione di chi sta tentando di mantenere un equilibrio in mezzo alle ansie di una malattia.
Nella maggioranza dei casi l’aiuto si dovrebbe basare sulla presenza, sull’ascolto e sulla saggezza di un accoglimento silenzioso: per questo chi si specializza in psicoterapia deve imparare il silenzio prolungato come tecnica di cura. Meglio esserci e tacere invece di lasciarsi prendere dal pathos della paura, suggerendo rimedi e comportamenti che possono rivelarsi l’esatto opposto di ciò che è necessario.