Il fatto che un’intelligenza sia artificiale fa un po’ impressione: attribuiamo il significato della parola “intelligenza” a una prerogativa umana, tanto da toglierla agli animali, alle piante, al mondo minerale. Diamo per scontato che la vita intelligente ci riguardi in esclusiva: se pensiamo al cosmo ci chiediamo se esistano esseri viventi simili a noi, cioè con la capacità preponderante di usare il pensiero logico e razionale. Le facoltà cognitive, insomma.
Nessuno ha mai stabilito, però, che l’intelligenza non potesse essere artificiale, cioè che da questa caratteristica umana non nascesse altro, una specie di clone di se stessa in grado, forse, di superarla e di perfezionarsi iniziando a gestirsi da sola. Era stato previsto da artisti, sognatori e qualche scienziato (i veri scienziati sono visionari e non rigidi esecutori di leggi fallibili), ma l’aspettativa era proiettata in un futuro anteriore.
Adesso ci siamo: AI esiste. La domanda a questo punto è: come dovremmo comportarci?
Personalmente la benedico per tutti i miglioramenti che sta portando alla maggioranza delle attività, anche se sono consapevole che arrecherà un danno a tutto ciò che riguarda la scrittura. Ogni espressione creativa e professionale basata sulla scrittura deve già fare i conti con AI. Che piaccia o meno. E non si tratta solo di un controllo sulla correttezza sintattica o grammaticale: AI è capace di creare, e creando migliora se stessa, produce scritti la cui dignità artistica un giorno sarà riconosciuta. Non vedo un male in questo, a patto che la cosiddetta umanità sia in grado di evolvere a propria volta.
Mi sento minacciata come medico psicoterapeuta e scrittrice? No. Il progresso non mi spaventa, credo che la fiamma vitale che caratterizza ognuno di noi continui a vivere e porti la nota speciale che dovremmo usare per renderci preziose/i e riconoscibili.
Mi chiedo però se qualcuno si sia mai accorto che il dibattito attuale sull’Intelligenza Artificiale avrebbe dovuto tenersi sulla Medicina Ipertecnologica: ha rischiato di togliere la sensibilità e l’anima che solo l’umanità dei medici sapeva instillare nella cura.
La diagnosi è anche questione di intuito: succede di accorgersi di un problema in pazienti i cui referti sono perfettamente sani.
La tecnologia fa la propria parte, ma chi ha scelto di diventare medico o terapeuta? Ci siamo mai preoccupate/i che un esame superpreciso potesse mettere in evidenza lesioni la cui natura resta comunque dubbia, creando uno stato di allarme con zero prospettive di cura? Ci siamo chieste/i se comunicare l’esito di un esame istologico o radiologico con un messaggio email o una lettera a casa o trascrivendolo semplicemente sul fascicolo sanitario fosse una procedura UMANA, sensibile e senza un impatto negativo sulla psiche, quindi sul corpo fisico? Spedendo un esito senza commenti almeno telefonici da parte del medico di fiducia (e già in alcune situazioni il telefono è un mezzo imbarazzante per cambiare la vita della gente) ci assumiamo la responsabilità di fare ammalare qualcuno a causa dello stress, del trauma, della paura.
E direi che si possa smettere di affermare che lo stress non faccia ammalare: ormai gli studi scientifici che dimostrano un nesso tra stress e malattia sono centinaia.
Non temo la nostra nuova amica AI perché da medico non mollo sulle mie prerogative umane, non la temo anzi la ringrazio perché suggerisce migliorie evidenti alla scrittura in qualsiasi lingua, non temo la meravigliosa tecnologia in medicina perché so gestire la comunicazione e la prescrizione, e si lascia disumanizzare solo chi non ha capito cosa significhi prendersi cura delle persone, lasciando a casa il cuore e il detto spirituale “FAI AGLI ALTRI SOLO CIO’ CHE VUOI RICEVERE”.