Mi diverte l’interazione che si sviluppa quando pubblico nei social riflessioni che appaiono meno sdolcinate, amorevoli (con un’idea dell’amorevolezza su cui nutro immensi dubbi) e zuccherose: apparentemente vige l’idea che l’aiuto agli altri e l’eventuale insegnamento debbano basarsi su una sorta di arrendevolezza di fronte a qualunque anomalia, a prescindere dal fatto che imparare e/o guarire siano atti di volontà e di disponibilità a incontrare il proprio lato in ombra. Si dimentica che a volte per estirpare un male sia necessaria la chirurgia, ma anche che le migliori maestre e i migliori maestri (tra i quali non mi annovero, provando solo a ispirarmi a volte alla loro equanime saggezza) non hanno mai mancato di indicare un’ombra non per giudicarla, ma per farla osservare a chi la stava vivendo. Vedere non è giudicare, rifiutare di vedere è perdere l’opportunità di guarire.
Di recente ho scritto qualcosa che riguardava le persone che concentrano sulla spiegazione razionale ogni espressione di sé e trascurano in modo evidente il sentire: il loro inconscio e il sistema nervoso autonomo (che niente ha a che vedere con la volontà razionale) sono per loro un piccolo e inessenziale sovrappiù, che credono di controllare con atti di coscienza che, poi, arrivano a niente.
Il mal di testa cronico è un tipico esempio di un disequilibrio tra pensiero e istinto: la testa pesa e un cerchio oppure un masso gravano quasi continuamente sulla sua leggerezza, insieme a un’abitudine inveterata a spiegare tutti i fenomeni della vita, psiche compresa, con un’affabulazione pseudo-freudiana, cioè con l’attribuzione al solito passato traumatico di ogni nefandezza che si verifica nel presente. E il dolore non solo non se ne va, ma si prende gioco di ogni terapia farmacologica.
“Lo so, ho mal di testa perché ho tanti pensieri” è una frase che mi sento ripetere spesso, ma non con il significato necessario: la Via della Cura non si trova in una lamentela su quanti problemi si stiano affrontando e quanti strumenti intellettivi si mettano in campo per risolverli, ma nell’accettazione che il tentativo di spiegare tutto con la mente razionale peggiori le cose e non guarisca nessuno.
La testa fa male e pesa perché è usata male, esiste un disequilibrio tra razionalità e istinto, tra pensare e sentire: finché non si esce da lì è inutile girovagare alla ricerca di palliativi per un dolore che continuerà a esistere. E, come ho detto nel post in Facebook che ha suscitato il sospetto che io sia poco amorevole (cioè lontana dal concetto della melassa densa con cui si vorrebbe definire la relazione di cura), può succedere che una caduta sia un evento prezioso per accorgersi che è ora di cambiare strada.