Di recente, a una presentazione del suo libro “Perché ci sia luce” (Mondadori), Alessandro Stani ha risposto a una mia domanda (ne ero relatrice) affermando che le emozioni fanno parte della sperimentazione che ci è necessaria nel corso dell’incarnazione. Non essendo esse presenti (nella forma a noi nota) nell’esistenza d’anima, scegliamo di incarnarci per evolvere e per affrontare prove che, essenzialmente, hanno spesso a che fare proprio con loro, con le emozioni.
Questa mattina le sue frasi sono ritornate potenti e vive mentre pensavo alla vita che ho scelto e alla Via della Cura. Giorno dopo giorno mi rendo conto che le emozioni sono alla base di ogni trauma, ogni malessere, ogni disagio psicofisico, ogni rottura dell’equilibrio ma anche ogni possibilità di ripristino della salute. Sono la base per molte malattie, ma non in modo lineare e diretto. Dipende da come sono state vissute, se sono state viste e accettate e successivamente lasciate andare oppure no. Tendiamo a scacciarle, a rimuoverle, a narcotizzarle con i farmaci o con tecniche mentali che rimandano l’esperienza a data da destinarsi: provare le emozioni è diventata una scelta soggettiva, nell’illusione che sia possibile evitare questo tipo di funzione del sistema psicofisico.
La realtà è che le emozioni sono la più grande prerogativa evolutiva della nostra esistenza. Non serve ammantarsene per ostentare un talento artistico, ma neanche schermarle con uno strato di piombo interiore fingendo che non ci siano: serve riconoscerle, familiarizzare con loro e imparare a lasciarle fare senza commettere troppi errori.
Sentirsene in balia è una descrizione dell’incapacità di vedere di cosa si tratta: alle prove non dovremmo tentare di sfuggire perché servono a spingerci più in alto, più in là. Arrivano (le emozioni, nella forma delle prove) perché devono farlo, nel nostro interesse e nel divenire inevitabile dell’esistenza umana.
Non sono gli eventi a turbarci, nemmeno quando appaiono intollerabilmente enormi: sono le emozioni con le quali li affrontiamo e i pensieri che infiliamo in modo inopportuno nel percorso emotivo. Perché sapete benissimo che una delle abitudini peggiori della cultura occidentale è reiterare i racconti delle tragedie suscitando ondate ripetute di emotività che non solo non guariscono nessuno, ma ripropongono i traumi all’infinito.
Non è vero che esistono esperienze oggettive: siamo nella soggettività assoluta, sempre. Lo stesso trauma non provoca reazioni uguali nelle persone che lo vivono, e non tutte le vittime sviluppano malattie o la medesima malattia fisica: questa osservazione dovrebbe essere valorizzata quando si cercano le origini dei disagi.
Niente è identico in persone differenti, anche se i nomi che diamo a ciò che stanno vivendo sembrano gli stessi. Gli equilibri interni sono chimica che si esprime in modo unico e speciale, in una cascata di sostanze microscopiche efficacissime che ottengono risultati tra loro non paragonabili. Il punto di vista, cioè la percezione che abbiamo quando affrontiamo un’esperienza, è di fatto l’emozione dominante che decidiamo di vivere in pieno o di nascondere da qualche parte, creando una bomba micidiale che prima o poi deciderà di esplodere.
Sono le emozioni a fare male, non gli eventi che sembrano provocarle. E ogni emozione può essere vissuta in modo evolutivo oppure no.
Se abbiamo così paura delle emozioni stiamo confermando ciò che ha detto Alessandro: sono davvero “tanta roba”. Hanno un impatto su ogni aspetto del quotidiano, sui punti di vista, sulla capacità di creare relazioni e materialità, sullo stato in cui affrontiamo il mondo. E nella malattia sta diventando sempre più evidente che sia impossibile prescindere dalle emozioni se si vuole davvero curare qualcuno: non che sia una scoperta vera, visto che le culture orientali millenarie (ma anche la medicina di Hildegard Von Bingen) avevano già detto la stessa cosa.
Per questo ho deciso da tempo di non limitarmi al corpo fisico e a una medicina univoca, per questo credo che la vera speranza futura per chi sceglie di diventare un medico sia aprirsi, comprendere che essere eccellenti nel togliere le manifestazioni della malattia non significa averne compresa l’origine. Si tratta di decidere di non svolgere il proprio dovere verso i pazienti solo a metà.