Penserete che stia scrivendo una riflessione religiosa: se è così state sbagliando. La preghiera è il raccoglimento silenzioso, lo sguardo spostato dentro di sé e un po’ più in alto, l’apertura a una dimensione che prevede possibilità ulteriori e spazi più ampi. Non serve che si reciti il nome di un Dio: serve che lo stato di preghiera accompagni in un’interiorità che definisco spirituale anche per chi si dichiara atea/o, laica/o, agnostica/o.
Pregare è riconnettersi con il sé, dedicando un tempo a una centratura preziosa per ogni forma di riequilibrio e di guarigione (anche fisica): per qualcuno potrebbe essere meglio usare il verbo meditare, oppure contemplare, o rilassarsi, ma la definizione ha poca importanza ed è solo una questione individuale legata alla formazione, alle credenze, ai valori di riferimento. Perché pregare è agire, accedere a un silenzio che non deve fare paura: è la fonte di ogni creazione.
Fermare i gesti del quotidiano, le connessioni elettroniche, le parole continue dell’interazione umana e cercare dentro di sé lo spazio-tempo della quiete che non ragiona, non ricorda, non progetta perché semplicemente è: qui sta la base per ogni evoluzione positiva, ogni vera decisione, per la Via della Cura. I riti, per esempio, sono preghiera: fermano lo svolgersi delle attività profane e trasferiscono in un altrove che costruisce in modo differente.
Pregare è aprirsi a una fiducia che la razionalità definirebbe sciocca, ma la cui potenza energetica si può facilmente percepire. Ha a che fare con le emozioni, con il sentire, con un’intuizione la cui esistenza è nota anche a chi finge di aggrapparsi a una scienza che, se ci pensiamo, non è altro che ricerca continua: la ricerca deve dubitare ma deve anche progredire, smentire, confermare, spaziare senza pregiudizi. Per questo sorrido quando la parola scienza è sbandierata per chiudere, limitare, irrigidire e ostacolare alcuni percorsi che un giorno – sono certa – faranno parte normale della medicina e di un nuovo concetto di tecnologia. Chi davvero fa scienza non è proprio capace di mettere al bando idee temporaneamente differenti dalle sue: la curiosità spinge ad accogliere e discutere e non a respingere a priori.
Di recente qualcuno ha scritto che sarei “un medico che si occupa troppo della psiche dei pazienti”: al di là del dettaglio oggettivo della mia frequenza del terzo anno della scuola di specializzazione in Psicoterapia Psicosomatica, è inquietante di per sé che si voglia puntualizzare che un medico non debba fare altro che aggiustare un corpo fisico (o, peggio, una sua parte). Se questa deve essere l’idea attuale della medicina, allora sceglierò di essere una terapeuta e rinuncerò all’ego del medico: sarò libera di occuparmi di un concetto di salute che ha molto di spirituale prima di tramutarsi in una risposta fisica (comunque evidente) alle cure. Se penso a cosa sia da sempre la medicina, a quali siano stati i grandissimi esempi di medici nei secoli a ogni latitudine mi chiedo cosa spinga oggi a insinuare che per curare i pazienti si debba ignorare la loro dimensione psicologica: quanti medici che stanno leggendo ora si sentirebbero di avallare questa visione?
Pregare è medicina, è rivolgersi al sé che vive dentro, alla saggezza indistruttibile che, interpellata, risponde: si attivano meccanismi che, attraverso le emozioni e i loro corrispettivi chimici (ormoni e neurotrasmettitori), raggiungono tutti gli organi e gli apparati. Di fatto, pregare è una cura. Si tratta di intendersi su quali contenuti abbia la preghiera: nell’accezione occidentale si prega solo per chiedere un favore, un dono, un miracolo, ma il vero significato di quel silenzio che mormora dentro è molto più ampio e ha a che fare con l’attivazione di un Guaritore interno che sa come e dove agire, che apprezza i ringraziamenti e si potenzia di conseguenza, che è una compagnia profonda nei momenti di solitudine.