Qualche giorno fa ho avuto uno scambio di idee con una donna che ha commentato un mio post in Facebook: nel post sottolineavo l’importanza delle parole come strumento di cura, in un commento la signora affermava invece che solo i fatti contassero perché le parole sono soggette a finzione, manipolazione, falsità. Aggiungeva, poi, di essere stata una paziente oncologica: quando qualcuno sente il bisogno di sottolineare questo stato di “paziente” mi fermo a riflettere su quale impatto abbia avuto la malattia e su quali siano le conseguenze. Ci si può raccontare in mille modi, ma dichiarare di essere stati o essere malati è come rivendicare l’appartenenza a un gruppo umano a parte, dotato di poteri e fragilità e diritti e doveri differenti.
Ricordo un’autrice americana che, in una bellissima graphic novel, inventò la “cancro-card”, una specie di lasciapassare per chi ha avuto una malattia tumorale che autorizzerebbe a manifestare se stessi in modo pieno e spontaneo a dispetto del mondo circostante. Ecco, quando in un confronto verbale qualcuno mette in mezzo lo status di paziente o ex paziente la cancro-card affiora nella mia mente e genera emozioni forti e contrastanti: quali facoltà aggiuntive, quale saggezza automatica nascono dall’affrontare un percorso duro, complesso, drammatico come quello oncologico? In realtà la consapevolezza e l’evoluzione non sono immediate e nemmeno garantite: la malattia e il trauma possono generare tante reazioni, non sempre si tratta di un progresso in avanti. C’è chi si ferma, chi regredisce, chi chiude il cuore invece di aprirlo nella comprensione e nella migliore comunione con gli altri. E’ normale: siamo individui, ciò che portiamo con noi è unico e crea reazioni uniche.
Ritornando alle parole: il percorso medico specialistico e olistico e la professione di scrittrice mi insegnano ogni giorno che i fatti non siano sufficienti. Le parole possono curare o distruggere, salvare o uccidere (letteralmente). La cura è anche – tanto – una questione di parole, con il contenuto, la vibrazione, il tono, l’atteggiamento migliori. La relazione tra medico (o infermiere) e paziente è, moltissimo, uno scambio di suoni nella forma di parole: perfino la tanto sbandierata empatia si nasconde lì. Provate ad abbracciare qualcuno solo per dovere, senza aggiungere suoni o sillabe o piccole affermazioni: l’effetto non è lo stesso di quando vi lasciate andare a un abbraccio che dica ciò che provate. Fate vibrare la voce quando volete aiutare o consolare qualcuno, quando godete nell’Eros o piangete un lutto: riuscite a percepire quanto il suono sia vettore emotivo? Perché quindi non dovrebbe essere in grado di partecipare alla terapia?Le parole sono una scelta, non escono o non dovrebbero uscire a caso: nell’era di internet e dei social network (che amo e frequento, vedendone i limiti) si è persa la consapevolezza di quanto sia importante sceglierle bene e indovinare le conseguenze. Nella Via della Cura non valgono meno di un farmaco scelto con il cuore e con la scienza chiara in mente.